di Maximilian Cellino (Il Sole 24 Ore) Fa sempre più spavento la montagna del debito globale: non solo perché ha appena toccato un nuovo record, ma anche perché ad alimentare la sua crescita ormai pressoché continua sono soprattutto i Paesi emergenti, ritenuti a torto o ragione più vulnerabili. La quota raggiunta a marzo 2024 vale ormai 315mila miliardi di dollari quando si guarda a Stati, banche, imprese e famiglie di tutto il mondo. Sono 1.300 miliardi in più in soli tre mesi, secondo quanto riportato nel Global Debt Monitor pubblicato dall’Institute of International Finance (Iif), e ad aumentare i timori contribuisce anche il fatto che sia tornato a salire fino al 333% il rapporto con il Pil dopo tre trimestri consecutivi di riduzione.
La dinamica è appunto il risultato della sostanziale conferma dei livelli raggiunti in precedenza nelle aree più mature del globo (con esclusione di Usa e Giappone) e di quella che ormai pare un’avanzata inarrestabile nei Paesi emergenti. Per questi ultimi il debito si è infatti spinto verso un livello mai visto di 105mila miliardi, 55 in più rispetto a quanti se ne potevano contare un decennio fa, con Cina, India e Messico a registrare gli incrementi più rilevanti. La situazione, già di per se non rosea, potrebbe farsi ancora più complessa a causa del perdurare dei fenomeni inflazionistici, in particolare negli Stati Uniti, che continuano a rappresentare un rischio significativo proprio perché capaci di esercitare ulteriori pressioni al rialzo sui costi di finanziamento globali.
L’aumento delle frizioni commerciali e una maggiore frammentazione geoeconomica potrebbero secondo l’analisi di Iif ridurre inoltre la capacità di servizio del debito estero dei mercati emergenti, che non sono neanche immuni al disallineamento che si sta profilando fra le condizione economiche fra le due sponde dell’Oceano Atlantico. L’ormai previsto ritardo nel taglio tassi da parte della Federal Reserve, combinato con una Bce che invece dovrebbe iniziare fin da subito ad allentare la presa potrebbe infatti innescare un rally del dollaro, guidare un’ulteriore fuga di capitali verso asset statunitensi ed esercitare ancora maggiori tensioni su quanti al di fuori degli Usa hanno un significativo debito in dollari, in particolare nei Paesi in via di sviluppo.
Certo, rileva il Global Debt Monitor, siamo in presenza di «prospettive economiche globali a breve termine relativamente ottimistiche che rappresentano di per sé fattore positivo per la dinamica del debito» e c’è da considerare anche la salute dei bilanci delle famiglie (unica categoria per la quale il ricorso al debito risulta in leggera discesa al 59,1% del Pil) che nell’immediato dovrebbe fornire un cuscinetto contro quelli che si prospettano come «tassi più alti a lungo termine». I disavanzi di bilancio pubblici restano però superiori ai livelli pre-pandemia e si prevede che quest’anno contribuiranno per circa 5.300 miliardi all’accumulo di debito globale.
Guardando ai Paesi avanzati, Iif nota l’aumento del debito pubblico del 17% negli Stati Uniti e si sofferma in particolare sul Giappone, definito come «uno dei più indebitati al mondo» con un livello totale che si aggira oltre il 600% del Pil e un’impennata del 60% rispetto ai livelli pre-Covid che non ha pari tra i mercati maturi durante questo periodo. Tokyo fa tuttavia relativamente meno paura «dato che le istituzioni finanziarie giapponesi e il governo generale – spiega Iif – detengono notevoli quantità di attività estere e il forte deprezzamento dello yen rispetto alle valute dei suoi principali partner commerciali dovrebbe sostenere le dinamiche del debito sovrano e societario del Giappone». Una valuta più debole potrebbe in questo caso «esercitare ulteriore pressione sui bilanci delle famiglie, diminuendo il loro potere d’acquisto, e avere un impatto negativo sulla dinamica del loro debito nel medio termine», ma quelli degli analisti non sembrano toni da allarme.
L’Europa risulta infine area dalle dinamiche relativamente morigerate: in confronto al Pil il livello del debito nell’area euro si è ridotto a marzo al 349,2% rispetto al 356,2% di 12 mesi prima, con la sola eccezione del settore finanziario e cali più significativi in Germania. * Articolo integrale pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’8 maggio 2024 (In collaborazione con Mimesi s.r.l.)
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