La recente sentenza n. 2815 del 25 marzo 2024 del Consiglio di Stato segna i confini entro cui si snoda il possibile percorso dei Comuni, nell’ambito del proprio potere regolamentare e pianificatorio, di limitazione allo svolgimento delle attività produttive sul proprio territorio.
Si propone così di attualità la vexata quaestio: fino dove si può spingere il Comune, nella propria discrezionalità, nel condizionare, se non vietare, le attività economiche?
Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: nel prisma del diritto euro-unionale, che tutela massimamente la libertà di fare impresa, i Comuni non possono in maniera apodittica, immotivata e generica porre limiti o divieti se non giustificati da motivi imperativi di interesse generale, non altrimenti risolvibili , afferenti la tutela di altri beni e valori di interesse generale quali la tutela della salute, dell’ordine pubblico, dell’incolumità, del patrimonio artistico, storico e culturale, dell’ambiente.
Diversamente si risolverebbero in limitazioni della libertà di concorrenza e di fare impresa, non più ammissibili.
Né può bastare il mero riferimento alle prescrizioni dello strumento urbanistico generale del Comune (il Prg), in particolare alla declaratoria delle attività assentibili in zona omogenea produttiva (“D” ex DM 1444/68), laddove si riferisca esclusivamente all’attività industriale.
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Pianificazione urbanistica e attività commerciali: i possibili limiti dei Comuni
Approfondimento di Pippo Sciscioli
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